Modello organizzativo 231

 Modello di organizzazione, di gestione e di controllo ai sensi del decreto legislativo 231/2001 

– parte generale –

 

Capitolo I – Il quadro normativo e la predisposizione dei modelli di organizzazione e controllo.

1.1) Introduzione.

Con il decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, è stata introdotta nel nostro ordinamento la “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle organizzazioni e delle associazioni anche prive di personalità giuridica” per alcuni reati commessi nel loro interesse o a loro vantaggio da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua organizzazione dotata di autonomia finanziaria o funzionale e da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti sopra indicati.

Questo decreto è stato emanato sulla base della legge 29 settembre 2000, n. 300, che, nel recepire una serie di atti internazionali e comunitari, delegò il governo a emanare una norma di previsione e di disciplina della responsabilità diretta degli enti da reato.

In particolare il legislatore con la legge n. 300/2000 ha recepito alcune convenzioni e protocolli internazionali precedentemente sottoscritti dall’Italia:

– la convenzione di Bruxelles del 26 luglio 1995 sulla tutela degli interessi finanziari della Comunità Europea;

– la convenzione di Bruxelles del 26 maggio 1997 sulla lotta alla corruzione dei funzionari pubblici della Comunità Europea e degli Stati membri;

– la convenzione OCSE del 17 dicembre 1997 sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche e internazionali.

Prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 231/2001 era consolidato il principio, di matrice romanistica (societas delinquere non potest) e sancito anche dalla costituzione italiana all’articolo 27, secondo il quale la responsabilità penale è personale e quindi gli enti in quanto tali non possono incorrervi.

L’ordinamento italiano prevedeva soltanto agli articoli 196 e 197 del codice penale che sull’ente ricadesse l’obbligazione di pagamento di multe o di ammende in caso di insolvibilità della persona fisica autrice materiale di un fatto accertato come reato commesso dal suo rappresentante legale, oltre a quella di risarcimento del danno.

Il decreto legislativo n. 231/2001, invece, ha introdotto un’assoluta novità nell’ordinamento italiano, ponendo a carico degli enti una responsabilità denominata amministrativa ma caratterizzata da forti analogie con la quella penale; nella relazione ministeriale di accompagnamento si legge infatti che questa responsabilità, “poiché conseguente da reato e legata alle garanzie del processo penale, diverge in non pochi punti dal paradigma dell’illecito amministrativo”; poi la stessa relazione sembra prefigurare un “tertium genus che coniuga i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo nel tentativo di contemperare le ragioni dell’efficacia preventiva con quelle, ancor più ineludibili, della massima garanzia”. Al di là della formale qualificazione giuridica non vi è dubbio che la tipologia di responsabilità delineata dal decreto n. 231/2001 presenti forti analogie con quella penale per diversi motivi: la necessaria derivazione dell’imputazione dell’ente da un fatto materiale di reato, la natura delle sanzioni irrogabili, il richiamo a istituti penalistici sostanziali e processuali, la sottoposizione dell’ente all’accertamento e al giudizio penale con tutte le garanzie previste dal processo penale del nostro ordinamento.

Il decreto legislativo n. 231/2001 prevede infatti a carico degli enti pesanti sanzioni in caso di commissione di reati e in relazione alla gravità dei reati commessi:

– sanzioni pecuniarie fino a più di un milione e mezzo di euro;

– sanzioni interdittive;

– confisca;

– pubblicazione della sentenza.

In ossequio a una specifica tecnica scelta dal legislatore nonché a uno stretto principio di legalità, la responsabilità dell’ente non sorge per qualsivoglia fattispecie criminosa ma solo in caso di commissione di specifici reati elencati nello stesso decreto n. 231/2001 o in leggi speciali, sicché sono puniti solo i reati, ancorché in continua crescita, previsti espressamente nel testo originario o introdotti successivamente.

Al momento dell’emanazione del decreto la responsabilità amministrativa degli enti era configurabile solo per le fattispecie di reato di cui agli articoli 24 e 25, relativi ai rapporti con l’amministrazione pubblica, ovvero:

– malversazione a danno dello Stato o di altro ente pubblico (articolo 316 bis codice penale); indebita percezione di contributi, finanziamenti o altre erogazioni da parte dello Stato o di altro ente pubblico (articolo 316 ter codice penale);

– concussione (articolo 317 codice penale);

– corruzione per un atto d’ufficio (articolo 318 codice penale);

– corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (articolo 319 codice penale);

– corruzione in atti giudiziari (articolo 319 ter codice penale);

– istigazione alla corruzione (articolo 322 codice penale);

– truffa in danno dello Stato o di altro ente pubblico (articolo 640, comma 1°, n. 1 del codice penale);

– truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (articolo 640 bis del codice penale);

– frode informatica in danno dello Stato o di altro ente pubblico (articolo 640 ter codice penale), anche se il legislatore aveva già previsto nella relazione di accompagnamento una possibile estensione delle tipologie, sia attraverso una diretta modifica al decreto sia attraverso il rinvio operato da leggi speciali.

Successivamente, infatti, l’articolo 6 della legge 23 novembre 2001 n. 409, recante “Disposizioni urgenti in vista dell’introduzione dell’euro“, ha inserito nell’ambito del decreto l’articolo 25 bis, che mira a punire il reato di “falsità in monete, in carte di pubblico credito e in valori di bollo”.

In seguito l’articolo 3 del decreto legislativo 11 aprile 2002 n. 61, in vigore dal 16 aprile 2002, nell’ambito della riforma del diritto societario, ha introdotto il nuovo articolo 25 ter del decreto n. 231/2001, estendendo il regime di responsabilità amministrativa degli enti anche ai cosiddetti reati societari, così come configurati dallo stesso decreto n. 61/2002 (false comunicazioni sociali, false comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori, falso in prospetto, falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni della società di revisione, impedito controllo, indebita restituzione dei conferimenti, illegale ripartizione degli utili e delle riserve, illecite operazioni sulle azioni o quote sociali o della società controllante, operazioni in pregiudizio dei creditori, formazione fittizia del capitale, indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori, illecita influenza sull’assemblea, aggiotaggio, ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, fattispecie poi modificate dalla legge 28 dicembre 2005, n. 262).

L’articolo 25 ter, comunque, non ha soltanto integrato l’elenco dei reati rilevanti in base al decreto legislativo n. 231/2001, ma ha anche ridisegnato il criterio oggettivo di imputazione della responsabilità amministrativa dell’ente e individuato in modo specifico i potenziali soggetti-autori dei reati presupposto.

In deroga, infatti, a quanto previsto dall’articolo 5, decreto legislativo n. 231/2001, l’articolo 25 ter stabilisce la responsabilità dell’ente “in relazione ai reati in materia societaria previsti dal codice civile, se commessi nell’interesse della società, da amministratori, direttori generali o liquidatori o da persone sottoposte alla loro vigilanza (…)”.

Dalla norma emergono due aspetti particolari:

– innanzitutto viene eliminato il requisito del “vantaggio” dell’ente: pertanto, l’ente sarà chiamato a rispondere indipendentemente dal conseguimento di un vantaggio, purché il reato sia stato commesso nel suo interesse;

– in secondo luogo l’individuazione dei potenziali autori del reato-presupposto, pur mantenendo ferma la distinzione dell’articolo 5 tra soggetti “apicali” e “sottoposti”, viene limitata a figure particolari, quali amministratori, direttori generali e liquidatori (apicali) e a tutti coloro che siano soggetti alla loro vigilanza (sottoposti).

Dopo l’inserimento dei reati societari l’intervento del legislatore è continuato con la legge 14 gennaio 2003, n. 7 che, ratificando e dando esecuzione alla Convenzione internazionale di New York del 9 dicembre 1999 per la repressione del finanziamento del terrorismo, ha introdotto nel decreto legislativo n. 231/2001 l’articolo 25 quater relativo ai delitti aventi finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico previsti dal codice penale e dalle leggi speciali.

Successivamente la legge 11 agosto 2003, n. 228 ha inserito l’articolo 25 quinquies che prevede la responsabilità dell’ente per una serie di delitti contro la personalità individuale disciplinati dal codice penale.

Nel 2005 la legge comunitaria (legge 18 aprile 2005, n. 62) e la legge sul risparmio (legge 28 dicembre 2005, n. 262) hanno inserito l’articolo 25 sexies volto a estendere la responsabilità amministrativa degli enti ai nuovi reati di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato.

La legge comunitaria 2004 ha inoltre modificato il testo del decreto, introducendo una specifica disposizione, l’articolo 187 quinquies, ai sensi della quale l’ente è responsabile del pagamento di una somma pari all’importo della sanzione amministrativa irrogata per gli illeciti amministrativi di abuso di informazioni privilegiate (articolo 187 bis) e di manipolazione del mercato (articolo 187 ter) commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da:

  1. a) persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria o funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso;
  2. b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a).

La legge 28 dicembre 2005, n. 262 (“Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari”) ha poi integrato e modificato sia il testo del decreto sia il codice civile, introducendo tra l’altro il nuovo articolo 2629 bis del codice civile relativo al reato di “Omessa comunicazione del conflitto di interessi”. Tale reato è stato introdotto, in forza della medesima legge n. 262/2005, nell’articolo 25 ter del decreto legislativo n. 231/2001.

Con la legge 3 agosto 2007, n. 123, recante “Misure in tema di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e delega al Governo per il riassetto e la riforma della normativa in materia” è stato poi introdotto nel decreto l’articolo 25 septies, poi sostituito ai sensi dell’articolo 300 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, che ha esteso il novero dei reati rilevanti ai sensi del decreto a:

– omicidio colposo (articolo 589 codice penale);

– lesioni colpose gravi o gravissime (articolo 590, comma 3° codice penale) commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro.

In seguito il decreto legislativo n. 231/07 di recepimento della direttiva 2005/60/CE, concernente la prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo, ha inserito nel decreto, ai sensi dell’articolo 63, 3° comma 3, l’articolo 25 octies che ha esteso l’elenco dei reati a:

– ricettazione (articolo 648 codice penale);

– riciclaggio (articolo 648 bis codice penale);

– impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (articolo 648 ter codice penale).

Infine, per effetto dell’entrata in vigore della legge 18 marzo 2008, n. 48, di ratifica e di esecuzione della Convenzione del Consiglio di Europa sulla criminalità informatica sottoscritta a Budapest il 23 novembre 2001, è stato introdotto nel decreto l’articolo 24 bis che estende l’elenco dei reati a:

– falsità in documenti informatici (articolo 491 bis del codice penale);

– accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico (articolo 615 ter del codice penale);

– detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici o telematici (articolo 615 quater del codice penale);

– diffusione di apparecchiature, dispositivi o programmi informatici diretti a danneggiare o interrompere un sistema informatico o telematico (articolo 615 quinquies del codice penale);

– intercettazione, impedimento o interruzione illecita di comunicazioni informatiche o telematiche (articolo 617 quater del codice penale);

– installazione di apparecchiature atte a intercettare, impedire o interrompere comunicazioni informatiche o telematiche (articolo 617 quinquies del codice penale);

– danneggiamento di informazioni, di dati e di programmi informatici (articolo 635 bis del codice penale);

– danneggiamento di informazioni, di dati e di programmi informatici utilizzati dallo Stato o da un altro ente pubblico o comunque di pubblica utilità (articolo 635 ter del codice penale);

– danneggiamento di sistemi informatici o telematici (articolo 635 quater del codice penale);

– danneggiamento di sistemi informatici o telematici di pubblica utilità (articolo 635 quinquies del codice penale);

– frode informatica del soggetto che presta servizi di certificazione di firma elettronica (articolo 640 quinquies del codice penale).

Nel 2006 il legislatore è intervenuto con ben tre modifiche al decreto legislativo n. 231/2001.

La prima modifica è stata apportata dalla legge 9 gennaio 2006, n. 7, che con il nuovo articolo 25 quater ha introdotto la responsabilità amministrativa degli enti per l’ipotesi di reato prevista e punita dall’articolo 583 bis del codice penale (pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili).

In seguito è stata approvata la legge 6 febbraio 2006, n. 38, contenente nuove norme in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e di contrasto al fenomeno della diffusione della pornografia infantile anche a mezzo internet; fra le novità introdotte vi sono la modifica dell’articolo 25 quinquies del decreto n. 231/2001 e l’ampliamento dei reati ivi previsti.

Successivamente la legge 16 marzo 2006, n. 146, di ratifica della Convenzione e dei protocolli aggiuntivi delle Nazioni Unite contro il crimine transnazionale, adottati dall’Assemblea Generale il 15 novembre 2000 e il 31 maggio 2001, ha esteso la responsabilità amministrativa degli enti anche a una serie di reati aventi carattere transnazionale.

La tecnica normativa utilizzata dal legislatore è stata diversa rispetto alle precedenti modifiche; anziché integrare il decreto nella parte relativa ai reati-presupposto, esso ha preferito disciplinare direttamente le nuove fattispecie e rinviare al decreto n. 231/2001 la disciplina dei requisiti generali di imputazione della responsabilità all’ente.

Il legislatore, al fine di definire l’ambito di applicazione della disciplina in esame, ha formulato una definizione di reato transnazionale, quale illecito punito con una pena della reclusione non inferiore nel massimo a 4 anni, qualora sia coinvolto un gruppo criminale organizzato, nonché:

  1. a) sia commesso in più di uno Stato;
  2. b) ovvero sia commesso in uno Stato ma una parte sostanziale della sua preparazione, della sua pianificazione, della sua direzione o del suo controllo avvenga in un altro Stato;
  3. c) ovvero sia commesso in uno Stato, ma in esso sia impiegato un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato;
  4. d) ovvero sia commesso in uno Stato ma abbia effetti sostanziali in un altro.

Ai sensi della stessa legge n. 146/2006 i rati transnazionali rilevanti ai fini della responsabilità amministrativa degli enti sono: reati associativi, traffico di migranti, intralcio alla giustizia (induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria e favoreggiamento personale).

La riforma che ha suscitato però le maggiori reazioni è stata senz’altro quella attuata con la legge 3 agosto 2007, n. 123, che, nel ridisegnare la disciplina in materia di salute e di sicurezza sul lavoro, ha previsto la responsabilità degli enti per i reati di omicidio colposo e di lesioni colpose gravi o gravissime, commessi con violazione delle norme sulla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro (articolo 25 septies del decreto n. 231/2001).

La norma ha avuto un impatto estremamente rilevante, in quanto tutti gli adempimenti direttamente o indirettamente stabiliti dalla normativa vigente in materia di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori (T.U. 81/2008 e non solo) possono oggi rappresentare per gli enti un’area di rischio ai sensi dell’articolo 25 septies del decreto.

Invece l’articolo 25 octies (relativo ai reati di ricettazione, riciclaggio e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita) è stato inserito dalla legge 21 novembre 2007, n. 231, di attuazione delle direttive 2005/60/CE e 2006/70/CE.

Nel 2008 l’articolo 7 della legge n. 48 (legge di ratifica ed esecuzione della Convenzione di Budapest del 23 novembre 2001 in materia di criminalità informatica) ha inserito l’articolo 24 bis dedicato ai c.d. reati informatici.

Ulteriori modifiche al decreto legislativo n. 231/2001 sono state apportate nel 2009 con tre interventi del legislatore:

1) l’articolo 2 della legge 15 luglio 2009 n. 94 (pacchetto sicurezza) ha introdotto l’articolo 24­ ter  relativo ai delitti di criminalità organizzata (associazione per delinquere, associazioni di tipo mafioso anche straniere, scambio elettorale politico-mafioso, sequestro di persona a scopo di estorsione, associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, illegale fabbricazione, introduzione nello Stato, messa in vendita, cessione, detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di armi da guerra o tipo guerra o parti di esse, di esplosivi, di armi clandestine nonché di più armi comuni da sparo).

Invero i delitti contro la criminalità organizzata erano già previsti come potenziali illeciti amministrativi in forza del decreto n. 231/2001 dall’articolo 10 della legge n. 146/2006 (“Ratifica della Convenzione O.N.U. sulla lotta alla criminalità organizzata transnazionale”). L’estensione di tali illeciti anche all’ambito nazionale si inquadra in un più articolato programma di lotta alla criminalità di impresa.

2) L’articolo 15 della legge 23 luglio 2009 n. 99, tra le altre disposizioni contenute, ha modificato l’articolo 25 bis (estendendo la sua applicazione anche alla tutela di strumenti o segni di riconoscimento) e inserito l’articolo 25 bis 1 (delitti contro l’industria e il commercio) e l’articolo 25 novies (delitti in materia di violazioni del diritto d’autore).

3) L’articolo 4 della legge 3 agosto 2009, n. 116, ha introdotto l’articolo 25 novies (induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria): si tratta di un’apparente sovrapposizione, in quanto esisteva già un articolo 25 novies (delitti in materia di violazione del diritto d’autore).

Negli anni successivi al 2010 si sono succedute numerose altre modifiche: in particolare è stata estesa la responsabilità amministrativa degli enti ai “(…) reati in materia di tutela dell’ambiente e del territorio, che siano punibili con pena detentiva non inferiore nel massimo ad un anno anche se alternativa alla pena” nonché all’impiego di manodopera non regolare in Italia e all’ipotesi di delitto tentato, oltre che negli altri ambiti di seguito specificati.

A ratifica della convenzione di Lanzarote sulla protezione dei minori dalle forme di sfruttamento e di abuso sessuale la disciplina dell’associazione per delinquere è stata modificata con l’aggiunta di un comma alla relativa norma del codice penale (articolo 416) da parte dell’articolo 4 della legge 1° ottobre 2012, n. 172, comma che configura un’ipotesi speciale di associazione per delinquere, che si distingue per il trattamento sanzionatorio più aspro, nonché per le condizioni della vittima e la peculiare tipologia dei reati fine.

Sempre al 2012 risale la modifica della disciplina della concussione, la quale precedentemente ricomprendeva la doppia fattispecie della concussione per costrizione e di quella per induzione: l’articolo 1 della legge 6 novembre 2012, n. 190, ha eliminato il riferimento all’induzione, la quale ora è disciplinata separatamente all’articolo 319 quater.

La medesima legge ha altresì modificato in maniera profonda la disciplina della corruzione, dal momento che l’articolo 1, laddove vi era il riferimento, sia nella rubrica sia nel testo, a “un atto d’ufficio”, ha inserito il concetto di “funzioni o di poteri” del funzionario pubblico, consentendo così di perseguire il fenomeno dell’asservimento della pubblica funzione agli interessi privati qualora la dazione del denaro o di un’altra utilità è correlata alla generica attività, ai generici poteri e alla generica funzione cui il soggetto qualificato è preposto e non più quindi solo al compimento o all’omissione o al ritardo di uno specifico atto. Dal 2012 è quindi viene criminalizzata anche la corruzione impropria attiva.
In materia di corruzione l’articolo 1, 75° comma, lettera h), n. 1 e 2, della legge 6 novembre 2012, e, circa tre anni dopo, l’articolo 1, 1° comma, lettera g), numeri 1 e 2, della legge 27 maggio 2015, n. 69, hanno modificato in maniera profonda la disciplina, introducendo numerose modifiche e inserendo delle circostanze aggravanti indipendenti e determinando un aumento delle pene.

La serie consistente delle modifiche della disciplina rilevante a livello di responsabilità amministrativa delle imprese è proseguita con le innovazioni introdotte in tema di frode informatica dall’articolo 9, 1° comma, lettera a), del decreto legge 933 del 14 agosto 2013, convertito dalla legge 119 del 15 ottobre 2013, che ha introdotto il 3° comma dell’articolo 640 ter del codice penale (frode informatica), ovvero la previsione che il fatto sia commesso con furto o indebito utilizzo dell’identità digitale in danno di uno o di più soggetti.

Quanto invece al reato presupposto di cui all’articolo 583 bis del codice penale (pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili) l’articolo 93, 1° comma, lettera s), del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154, ha introdotto il concetto di responsabilità genitoriale in luogo di quello di responsabilità genitoriale.

Nel corso del 2013 è stato altresì modificato l’articolo 648 del codice penale (ricettazione) dall’articolo 8, comma 1, lettera b), del decreto legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, ed è stato abrogato il 4° comma dell’articolo 22 del decreto legislativo del 25 luglio 1998, n. 286 (lavoro subordinato a tempo determinato e indeterminato) dall’articolo 9, comma 7, lettera b), del decreto legge 28 giugno 2013, n. 76.

L’articolo 1, 1° comma, della legge 17 aprile 2014, n. 62, ha modificato l’articolo 416 ter del codice penale in tema di scambio elettorale politico-mafioso.

Uno dei settori nel quale più si sono riscontrate modifiche è quello della repressione della tratta degli esseri umani. La relativa fonte normativa è il decreto legislativo 24/2014, che attua la direttiva 2011/36/UE, relativa alla prevenzione e alla repressione della tratta di esseri umani e alla protezione delle vittime, che sostituisce la decisione quadro 2002/629/GAI.

Tale direttiva del 5 aprile 2011 amplia la nozione “di ciò che dovrebbe essere considerato tratta di esseri umani e include pertanto altre forme di sfruttamento“, di fatto inserite nel nostro ordinamento con il decreto legislativo 24/2014, che ha quindi modificato in parte l’articolo 600 del codice penale (“Riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù”), e sostituendo in toto l’articolo 601, rubricato appunto “Tratta di persone”, mantenendone comunque i limiti edittali di pena.

Quanto all’articolo 600 il termine “prestazioni” è sostituito dall’espressione “compimento di attività illecite” da parte di chi vi è costretto in forza di uno stato di soggezione continuativa, e inoltre è inserita un’ulteriore attività specifica oltre allo sfruttamento, quale la sottoposizione “al prelievo di organi”, in conseguenza della prassi consolidatasi nel tempo di gestire traffici illeciti organi da parte di organizzazioni transnazionali.

Da ultimo nel secondo comma, riguardo alle modalità con cui può avvenire “la riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione“, si aggiunge la fattispecie relativa all’approfittamento di una situazione “di vulnerabilità“, la quale va a differenziarsi dai successivi incisi relativi all'”inferiorità fisica o psichica” anche alla luce della definizione datane dall’articolo 2, paragrafo 3, della direttiva 2011/36/UE, che la individua nella “situazione in cui la persona in questione non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima“.

In materia di reati contro la persona è pure stata modificata la disciplina di cui all’articolo 589 del codice penale (omicidio colposo) dall’articolo 1, 3° comma, lettera d), della legge 23 marzo 2016, n. 41, con decorrenza dal 25 marzo 2016.

Il decreto legislativo 7 del 15 gennaio 2016, recante “Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili”, ha attuato una serie di depenalizzazioni, che hanno riguardato, per esempio, l’ingiuria (articolo 594 del codice penale), la sottrazione di cose comuni (articolo 627) e, per ciò che riguarda i reati presupposto della responsabilità amministrativa delle imprese, la falsità in scrittura privata (articolo 485 del codice penale).

Il pacchetto in esame ha abrogato delle fattispecie ritenute dal legislatore di minor allarme sociale, prefiggendosi di raggiungere il duplice obiettivo di diminuire il carico di lavoro degli uffici giudiziari e di garantire maggiore efficacia alla disciplina del risarcimento del danno a favore delle parti offese (per l’ingiuria per esempio la sanzione varia da 100 a 8.000 euro, mentre per la falsificazione di scrittura privata la sanzione è doppia).

In generale il decreto legislativo 8/2016 ha depenalizzato, trasformandoli in illeciti amministrativi, tutti i reati al di fuori del codice penale per i quali era prevista la pena della multa o dell’ammenda, a eccezione di quelli in materia di salute e di sicurezza sul lavoro, di ambiente, territorio e paesaggio, sicurezza pubblica, giochi d’azzardo, scommesse, armi, elezioni e finanziamento ai partiti, la cui disciplina è rimasta invece invariata.

Ulteriori rilevanti modifiche sono state apportate alle fattispecie rilevanti ai fini della responsabilità delle imprese dipendente da reato dal decreto legislativo 29 ottobre 2016, n. 202, entrato in vigore il 24 novembre, contenente disposizioni in materia di confisca dei beni strumentali e dei proventi di reato, in attuazione della direttiva europea 2014/42.

L’articolo 2 di tale decreto legislativo modifica l’articolo 240, secondo comma, n. 1 bis, del codice penale, introducendo la confisca obbligatoria diretta o per equivalente dei beni che costituiscono il profitto o il prodotto dei reati informatici di cui agli articoli 615 ter (accesso abusivo a un sistema informatico), 615 quater (detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici o telematici), 615 quinquies (diffusione di apparecchiature, dispositivi o programmi informatici diretti a danneggiare o interrompere un sistema informatico o telematico), 617 bis (installazione di apparecchiature atte a intercettare o impedire comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche), 617 ter (falsificazione, alterazione o soppressione del contenuto di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche), 617 quater (Intercettazione, impedimento o interruzione illecita di comunicazioni informatiche o telematiche), 617 quinquies (Installazione di apparecchiature atte ad intercettare, impedire o interrompere comunicazioni informatiche o telematiche), 617 sexies (falsificazione, alterazione o soppressione del contenuto di comunicazioni informatiche o telematiche), 635 bis (danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici), 635 ter (danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici utilizzati dallo Stato o da altro ente pubblico o comunque di pubblica utilità), 635 quater (danneggiamento di sistemi informatici o telematici), 635 quinquies (danneggiamento di sistemi informatici o telematici di pubblica utilità), 640 ter (frode informatica) e 640 quinquies (frode informatica del soggetto che presta servizi di certificazione di firma elettronica).

Il decreto con l’articolo 2 ha inoltre introdotto l’articolo 466 bis, il quale prevede, in caso di condanna, anche per richiesta congiunta delle parti, per uno dei delitti in materia di falsificazione delle monete di cui agli articoli 453(falsificazione di monete, spedita e introduzione nello Stato, previo concerto, di monete falsificate), 454 (alterazione di monete), 455 (spendita e introduzione nello Stato, senza concerto, di monete falsificate), 460 (contraffazione di carta filigranata in uso per la fabbricazione di carte di pubblico credito o di valori di bollo) e 461 (fabbricazione o detenzione di filigrane o di strumenti destinati alla fabbricazione di monete, di valori di bollo o di carta filigranata), che sia “sempre ordinata la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto, il prezzo o il profitto, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero quando essa non è possibile dei beni di cui il condannato ha comunque la disponibilità, per un valore corrispondente al profitto, al prodotto o al prezzo del reato”.

Inoltre l’articolo 3 di questo decreto legislativo ha introdotto all’articolo 2635 del codice civile un ultimo comma che stabilisce, in relazione al delitto di corruzione tra privati, che la misura della confisca per equivalente disposta ai sensi dell’articolo 2641 del codice civile non possa in ogni caso essere inferiore al valore delle utilità date o promesse (e, dunque, al valore della ”tangente”).

Ulteriori ipotesi di estensione della confisca così come delineata dall’articolo 12 sexies del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306, sono state previste dall’articolo 5 del decreto legislativo 202/2016, che la introduce in caso di condanna:

– per il delitto di associazione per delinquere di cui all’articolo 416 del codice penale, quando l’associazione è diretta a commettere i reati di falsificazione di monete, spedita e introduzione nello Stato, previo concerto, di monete falsificate (articolo 453 del codice penale), alterazione di monete (454), spendita e introduzione nello Stato, senza concerto, di monete falsificate (455), contraffazione di carta filigranata in uso per la fabbricazione di carte di pubblico credito o di valori di bollo (460) e fabbricazione o detenzione di filigrane o di strumenti destinati alla fabbricazione di monete, di valori di bollo o di carta filigranata (461);

– per il delitto di autoriciclaggio previsto dall’articolo 648 ter n. 1 del codice penale;

– per il delitto di corruzione tra privati previsto dall’articolo 2635 del codice civile;

– per il reato di utilizzo indebito di carte di credito o di pagamento previsto dall’articolo 55, 9° comma, del decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231;

– per i reati informatici di cui agli articoli 617 quinquies (installazione di apparecchiature atte ad intercettare, impedire o interrompere comunicazioni informatiche o telematiche), 617 sexies (falsificazione, alterazione o soppressione del contenuto di comunicazioni informatiche o telematiche), 635 bis (danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici), 635 ter (danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici utilizzati dallo stato o da altro ente pubblico o comunque di pubblica utilità), 635 quater (danneggiamento di sistemi informatici o telematici), 635 quinquies (danneggiamento di sistemi informatici o telematici di pubblica utilità), quando le condotte ivi descritte riguardano tre o più sistemi.

Il legislatore della novella ha inoltre precisato che la confisca allargata può trovare applicazione anche in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per taluno dei delitti commessi per finalità di terrorismo anche internazionale.

A livello concreto l’intervento del legislatore, che ha perso l’occasione per strutturare in maniera organica l’istituto della confisca, ha generato la possibilità che in alcuni casi si sovrappongano più norme a disciplinare la fattispecie, come per l’ipotesi, rilevante ai fini della responsabilità amministrativa delle imprese dipendente da reato, della confisca diretta o per equivalente dei beni che costituiscono il profitto o il prodotto del reato di frode informatica, disciplinata, se commessa in danno dello Stato o di un altro pubblico, sia dall’articolo 640 quater sia dall’articolo 240, 2° comma, n. 1 bis del codice penale.

Un’ulteriore normativa particolarmente rilevante anche per le imprese è costituita dal decreto legislativo 15 marzo 2017, n. 38, recante ”Attuazione della decisione quadro 2003/568/GAI del Consiglio, del 22 luglio 2003, relativa alla lotta contro la corruzione nel settore privato” (G.U. n. 75 del 30 marzo 2017).

Le novità introdotte dal provvedimento sono:

– riformulazione del delitto di corruzione tra privati di cui all’articolo 2635 del codice civile;

– introduzione della nuova fattispecie di istigazione alla corruzione tra privati (articolo 2635 bis);

– previsione di pene accessorie per ambedue le fattispecie.

L’ultima normativa degna di rilievo in materia è la legge 30 novembre 2017, n. 179, che contiene disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o di irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nel contesto di un rapporto di lavoro, entrata in vigore il 29 dicembre 2017, e composta da tre articoli.

In sintesi le nuove norme modificano l’articolo 54 bis del Testo Unico del Pubblico Impiego, stabilendo che il dipendente che segnala al responsabile della prevenzione della corruzione dell’ente o all’autorità nazionale anticorruzione o ancora all’autorità giudiziaria ordinaria o contabile le condotte illecite o di abuso di cui sia venuto a conoscenza in ragione del suo rapporto di lavoro, non può essere – per motivi collegati alla segnalazione – soggetto a sanzioni, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto a altre misure organizzative che abbiano un effetto negativo sulle condizioni di lavoro.

Secondo la nuova disciplina il dipendente deve essere reintegrato nel posto di lavoro in caso di licenziamento, essendo nulli tutti gli atti discriminatori o ritorsivi. L’onere di provare che le misure discriminatorie o ritorsive adottate nei confronti del segnalante sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione è a carico dell’amministrazione.

L’autorità nazionale anticorruzione (a.n.a.c.), a cui l’interessato o i sindacati comunicano eventuali atti discriminatori, applica all’ente (se responsabile) una sanzione pecuniaria amministrativa da 5.000 a 30.000 euro, fermi restando gli altri profili di responsabilità. Inoltre l’a.n.a.c. applica la sanzione amministrativa da 10.000 a 50.000 euro a carico del responsabile che non effettua le attività di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute.

Non potrà per nessun motivo essere rivelata l’identità del dipendente che segnala atti discriminatori e, nell’ambito del procedimento penale, la segnalazione sarà coperta nei modi e nei termini di cui all’articolo 329 del codice di procedura penale. La segnalazione è sottratta all’accesso previsto dagli articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n.  241, e successive modificazioni.

L’a.n.a.c., sentito il garante per la protezione dei dati personali, elaborerà linee guida sulle procedure di presentazione e gestione delle segnalazioni promuovendo anche strumenti di crittografia quanto al contenuto della denuncia e alla relativa documentazione per garantire la riservatezza dell’identità del segnalante.

Sempre secondo quanto previsto dall’articolo 1 della legge in esame, il dipendente che denuncia atti discriminatori non avrà diritto alla tutela nel caso di condanna del segnalante in sede penale (anche in primo grado) per calunnia, diffamazione o altri reati commessi con la denuncia o quando sia accertata la sua responsabilità civile per dolo o colpa grave.

Le nuove disposizioni valgono non solo per tutte le amministrazioni pubbliche, inclusi gli enti pubblici economici e quelli di diritto privato sotto controllo pubblico, ma si rivolgono anche a chi lavora in imprese che forniscono beni e servizi all’amministrazione pubblica.

Inoltre, secondo quanto previsto dall’articolo 2 della legge, la nuova disciplina allarga anche al settore privato la tutela del dipendente o collaboratore che segnali illeciti o violazioni relative al modello di organizzazione e gestione dell’ente di cui sia venuto a conoscenza per ragioni del suo ufficio.

Da ultimo l’articolo 3 del provvedimento introduce, in relazione alle ipotesi di segnalazione o denuncia effettuate nel settore pubblico o privato, come giusta causa di rivelazione del segreto d’ufficio, professionale, scientifico e industriale, nonché di violazione dell’obbligo di fedeltà all’imprenditore, il perseguimento, da parte del dipendente che segnali illeciti, dell’interesse all’integrità delle amministrazioni alla prevenzione e alla repressione delle malversazioni.

In questa sede vale la pena di segnalare come tale normativa (nota anche con la denominazione inglese whistleblowing) ha segnato una svolta non indifferente per una diffusione più pervasiva dei sistemi interni di segnalazione delle violazioni con riguardo al settore privato.

La novellata normativa prevede difatti rilevanti modifiche proprio al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, relativo alla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni, e introduce specifiche disposizioni che disciplinano eventuali violazioni dei modelli organizzativi, estendendo di fatto l’ambito di applicazione soggettiva dei sistemi interni di segnalazione delle violazioni.

Con l’intervento de quo, il legislatore pare aver dato concreta attuazione anche in ambito privato a quella tendenza a radicare ”una ”coscienza sociale” all’interno dei luoghi di lavoro, che invogli il singolo ad attivarsi per denunciare all’autorità ovvero anche al proprio datore di lavoro, eventuali illeciti di cui sia venuto a conoscenza in occasione dello svolgimento della propria prestazione”.

Il legislatore aveva già parzialmente introdotto la disciplina sul whistleblowing in alcuni specifici ambiti del settore privato, perlopiù attraverso la recente emanazione di atti legislativi di recepimento di normative europee.

Tra i più rilevanti si evidenziano, in ordine cronologico, i seguenti provvedimenti:

  • decreto legislativo 8 maggio 2015 recante ”recepimento della Direttiva 2013/36/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013” (c.d. CRD IV) che ha introdotto modifiche al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (TUB) e al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (TUF), prevedendo, tra l’altro, specifiche disposizioni per la segnalazione interna di eventuali violazioni normative da parte del personale delle banche.
  • decreto legislativo n. 90 del 25 maggio 2017 di recepimento della quarta direttiva antiriciclaggio (direttiva 2015/849/UE), pubblicato nella gazzetta ufficiale n. 140 del 19 giugno 2017, tra le cui disposizioni si evidenzia, per la prima volta nell’ambito della legislazione antiriciclaggio, la previsione di sistemi di whistleblowing, che impone ai soggetti obbligati di adottare procedure idonee per la segnalazione al proprio interno, da parte di dipendenti o di persone in posizione comparabile, di violazioni potenziali o effettive delle disposizioni di prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo;
  • decreto legislativo n. 129 del 3 agosto 2017 che recepisce la direttiva (UE) 2016/1034 che modifica la direttiva 2014/65/UE (MiFID II) relativa ai mercati degli strumenti finanziari, che, negli articoli 4 undecies e 4 duodeciesdel t.u.f. richiede agli intermediari di cui alla parte II del t.u.f., ai soggetti di cui alla parte III del t.u.f. nonché alle imprese di assicurazione di dotarsi di procedure specifiche per la segnalazione di violazioni dell’attività svolta, dettando altresì le procedure che i predetti soggetti sono tenuti a seguire al fine di effettuare segnalazioni all’autorità di vigilanza.

Se la ratio dell’intervento normativo consiste nell’incentivare determinate tipologie di condotte che promuovano ”più elevati standard di business ethics e di anticorruption la cui mancanza, invece, ostacola la creazione di valore per le imprese”, affinché esse siano incentivate è necessario prevedere che le conseguenze negative dalle medesime azionate non ricadano sul segnalante.

Sul punto la normativa ha dunque previsto due importanti tutele per il segnalante:

  • il divieto di atti di ritorsione o discriminatori, diretti o indiretti, nei confronti del segnalante per motivi collegati, direttamente o indirettamente, alla segnalazione;
  • la nullità del licenziamento ritorsivo o discriminatorio del soggetto segnalante, la nullità del mutamento di mansioni ai sensi dell’articolo 2103 del codice civile, nonché qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria adottata nei confronti del segnalante.

Importante altresì è la modalità con cui il legislatore ha inteso disciplinare la ripartizione dell’onere della prova in caso di controversie legate all’irrogazione di sanzioni disciplinari, o a demansionamenti, licenziamenti, trasferimenti, o sottoposizione del segnalante ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro, successivi alla presentazione della segnalazione.

Spetterà infatti al datore di lavoro dimostrare che tali misure sono fondate su ragioni estranee alla segnalazione.

Questa scelta si pone, come illustrato dall’a.n.a.c., in linea di continuità con le best practices adottate da molti paesi dall’area OCSE.

In effetti la segnalazione è potenzialmente foriera di importanti conseguenze negative per il segnalante, che possono includere, come evidenziato dall’a.n.a.c.:

  • l’emarginazione professionale,
  • la perdita dei mezzi di sussistenza con conseguenti possibili danni finanziari e di reputazione; oltre a ciò non è da sottovalutare la possibilità che i segnalanti rischino una ”stigmatizzazione che spesso li accompagna per il resto della loro vita lavorativa”.

Tuttavia non sono mancate alcune osservazioni critiche in relazione al principio introdotto dal legislatore; in particolare, già in sede di discussione della modifica alle disposizioni dell’articolo 54 bis del testo unico del pubblico impiego era stata segnalata ”la dubbia tenuta [del principio dell’inversione dell’onere della prova] alla luce delle previsioni dell’ordinamento nazionale in tema di onere della prova. Infatti, in genere, l’inversione di tale onere è ammessa laddove vi sia almeno un principio di prova o una presunzione, fornita dal soggetto interessato, che lasci almeno ipotizzare un nesso tra la segnalazione e la misura presa ai danni dell’autore. Al riguardo, l’esempio tipico potrebbe essere rappresentato dal mancato avanzamento di carriera che ben può essere motivato da intenti discriminatori quanto da una valutazione sul merito. In tal caso, dovrebbe essere onere dell”’autore” fornire un minimo di elementi da cui presumere un intento discriminatorio o ritorsivo a suo danno a seguito della segnalazione”.

Indicazioni utili per il tema della qualificazione della misura discriminatoria e del relativo legame tra la medesima e la segnalazione effettuata – latu sensu – dal whistleblower possono essere desunte da alcune pronunce giurisprudenziali.

A tale riguardo la corte di cassazione (6501/2013) ha deciso sulla legittimità del licenziamento intimato a un dipendente il quale, venuto a conoscenza di alcune irregolarità commesse da parte della propria azienda, aveva denunciato ai p.m. il proprio datore di lavoro e allegato una serie di documenti aziendali; il lavoratore era stato poi licenziato per violazione dell’obbligo di fedeltà e sottrazione di documenti aziendali. In tale caso la Suprema Corte ha affermato che ”non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento l’avere il dipendente reso noto all’autorità giudiziaria fatti di potenziale rilevanza penale accaduti presso l’azienda nella quale lavora né l’averlo fatto senza averne previamente informati i superiori gerarchici, sempre che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o dell’esposto; neanche è motivo di licenziamento l’avere allegato documenti aziendali”.

Diversamente la suprema corte ha escluso la sussistenza delle condizioni per l’applicabilità della disciplina del “whistleblowingex articolo 54 bis del decreto n. 165 del 2001 e quindi ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare intimato al lavoratore pubblico in un caso in cui il lavoratore inviava ”ad alcuni soggetti istituzionali (prefettura, procura della repubblica e Corte dei conti) una memoria contenente la denunzia di condotte illecite da parte dell’amministrazione di appartenenza palesemente priva di fondamento, configurandosi una condotta illecita, univocamente diretta a gettare discredito sull’amministrazione medesima”.

Da ultimo, occorre evidenziare come il sistema di tutele per il lavoratore sia stato integrato dalla previsione, introdotta nel corso dell’esame al Senato, dell’articolo 3 del decreto, secondo cui nelle ipotesi di segnalazione o denuncia effettuate nelle forme e nei limiti di cui all’articolo 54 bis del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e all’articolo 6 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, il perseguimento dell’interesse all’integrità delle amministrazioni, pubbliche e private, nonché alla prevenzione e alla repressione delle malversazioni, costituisce giusta causa di rivelazione di notizie coperte dall’obbligo di segreto di cui agli articoli 326, 622 e 623 del codice penale e all’articolo 2105 del codice civile.

Tale previsione pare aver determinato, nel rapporto di lavoro, “una più incisiva prevalenza dell’interesse pubblico alla punizione degli illeciti e delle irregolarità commessi sia dalla pubblica amministrazione sia dalle persone giuridiche di diritto privato e dagli altri enti dotati di personalità giuridica, rispetto alla tutela della riservatezza e del segreto derivanti dal rapporto di lavoro”.

Sulla qualificazione della giusta causa nella rivelazione, è stato osservato come la medesima possa operare ”come scriminante, nel presupposto che vi sia un interesse preminente (in tal caso l’interesse all’integrità delle amministrazioni) che impone o consente tale rivelazione”.

L’approvazione della normativa sul whistleblowing ha dunque sancito l’allargamento della platea di soggetti obbligati a dotarsi di un sistema di gestione delle segnalazioni, inserendo dopo il comma 2 dell’articolo 6 del decreto legislativo 231/2001, i commi 2 bis, 2 ter e 2 quater, ai sensi dei quali i modelli organizzativi previsti nell’ambito della normativa sulla responsabilità amministrativa degli enti, dovranno da ora prevedere tra l’altro:

  • uno o più canali che consentano a coloro che a qualsiasi titolo rappresentino o dirigano l’ente di presentare, a tutela della sua integrità, segnalazioni circostanziate di condotte illecite, rilevanti e fondate su elementi di fatto precisi e concordanti, o di violazioni del modello di organizzazione e gestione, di cui siano venuti a conoscenza in ragione delle funzioni svolte; tali canali garantiscono la riservatezza dell’identità del segnalante nelle attività di gestione della segnalazione;
  • almeno un canale alternativo di segnalazione idoneo a garantire, con modalità informatiche, la riservatezza dell’identità del segnalante;
  • misure idonee a tutelare l’identità del segnalante e a mantenere la riservatezza dell’informazione in ogni contesto successivo alla segnalazione, nei limiti in cui l’anonimato e la riservatezza siano opponibili per legge;

Alla luce di quanto esposto in precedenza, i modelli devono quindi contenere un impianto regolamentare idoneo a disciplinare internamente un sistema di segnalazione delle violazioni conforme alle intervenute novità legislative.

I modelli devono quindi riportare una descrizione specifica con riguardo:

  • ai soggetti abilitati a effettuare le segnalazioni,
  • ai contenuti oggetto di tali segnalazioni,
  • alle funzioni aziendali preposte alla gestione del sistema di whistleblowing nonché
  • alle forme di tutela riservate alla protezione dell’identità dei soggetti segnalanti e alle relative sanzioni previste nei confronti di chi viola tali misure.

In conclusione il nuovo impianto normativo si caratterizza per l’apprezzabile intento di promuovere in Italia una diffusione del sistema di whistleblowing che includa nel suo ambito di applicazione la più ampia platea di operatori economici, siano essi pubblici o privati.

Sebbene risulti apprezzabile l’impegno del legislatore a che una nuova cultura della legalità si diffonda in ambito lavorativo, permettendo che il lavoratore si faccia parte attiva nella segnalazione di condotte illecite perpetrate all’interno dell’azienda, i tempi per un giudizio certo circa la reale efficacia del nuovo sistema appaiono non del tutto maturi.

Peraltro ancora oggi emerge dalla prassi operativa da un lato una percezione distorta del whistleblower non quale valore per la società, bensì come ”un elemento di disturbo (…) poiché capace tanto di mettere a repentaglio la reputazione di quest’ultima, quanto di rompere omertà consolidate”, dall’altro l’incompleta efficacia delle segnalazioni rispetto alle potenzialità dell’istituto del whistleblowing.

A tale riguardo, come evidenziato in sede di primo commento alla nuova normativa, il legislatore avrebbe forse potuto prevedere nel decreto di una maggiore tutela del whistleblower mediante la creazione di un fondo a copertura di eventuali spese legali del soggetto segnalante, così da incentivare maggiormente l’efficacia dell’istituto.

Condivisibili e attuali appaiono infine i dubbi in precedenza sollevati circa la collocazione del whistleblowing ”all’interno di uno strumento, quale il modello organizzativo, che il legislatore stesso ha previsto come facoltativo”, potendo il whistleblowing essere introdotto quale strumento autonomo e svincolato dal modello stesso.

Ulteriormente degno di rilievo in materia è il decreto legislativo 1° marzo 2018, n. 21, il quale ha introdotto, abrogando l’articolo 260 del decreto legislativo 152/2006, l’articolo 452 quaterdecies del codice penale in materia di traffico illecito di rifiuti.

Nell’anno 2018 alcune modifiche rilevanti anche ai fini della responsabilità dell’ente derivante da reato sono state introdotte dal decreto legislativo 10 aprile 2018 n. 36, recante “Disposizioni di modifica della disciplina del regime di procedibilità per taluni reati in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 16, lettere a) e b), e 17, della legge 23 giugno 2017, n. 103” (riforma Orlando), entrato in vigore in data 9 maggio 2018, che ha esteso le ipotesi di  procedibilità a querela della persona offesa. La tabella seguente aiuta a capire, nell’ambito dei reati interessati, il nuovo regime di perseguibilità.

All’inizio del 2019 ugualmente la disciplina rilevante in materia di responsabilità delle imprese dipendente da reato ha trovato un ulteriore ampliamento con la legge anticorruzione (misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e dei movimenti politici) che reca il numero 3 ed è del 19 gennaio 2019 e che ha introdotto in particolare queste modifiche:

  1. i) l’estensione del catalogo dei reatiche possono dar luogo alla responsabilità dell’ente al delitto di traffico di influenze illecite (articolo 346 bis del codice penale);
  2. ii) l’inasprimento delle sanzioni interdittivepreviste dall’articolo 9, 2° comma, del decreto, qualora sia stato commesso un reato di concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità o corruzione; per effetto della modifica in tali casi la durata delle sanzioni interdittive (originariamente fissata in un termine non inferiore a un anno) non potrà essere inferiore a quattro anni e superiore a sette quando il reato è commesso da un soggetto apicale, e non inferiore a due anni e non superiore a quattro se il reato è commesso da un sottoposto;

iii) l’introduzione del beneficio della riduzione delle sanzioni interdittive per i reati di concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità o corruzione (per un termine compreso tra 3 mesi e 2 anni) nel caso in cui l’ente si sia adoperato per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l’individuazione dei responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite e ha eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l’adozione e l’attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;

  1. iv) la previsione della procedibilità d’ufficioper i reati di corruzione tra privati (articolo 2635 del codice civile) e di istigazione alla corruzione tra privati (2635 bis).

Si comincia a segnalare che il modello organizzativo sarà ulteriormente da ampliare secondo le prescrizioni già fornite della camera dei deputati, la quale il 13 novembre 2018 ha approvato e trasmesso al senato il disegno di legge C. 1201 recante “Delega al governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2018”.

Tra le 22 direttive da recepire, all’articolo 3, compare la Direttiva Pif (2017/1371) del Parlamento Europeo e del Consiglio in materia di tutela penale degli interessi finanziari dell’Unione Europea.

Nonostante si tratti di uno strumento legislativo che, diversamente dai regolamenti, non trova diretta applicazione negli Stati membri, ci si aspettano importanti ricadute nell’ordinamento italiano. A causa dei risultati organizzativi che la direttiva obbliga a raggiungere e dell’avvicinarsi del 6 luglio 2019, termine entro cui deve essere recepita, le aziende dovranno muoversi al più presto per non farsi trovare impreparate.

Per armonizzare le legislazioni penali dei vari stati europei, la direttiva:

– stabilisce quali sono i reati maggiormente lesivi degli interessi finanziari europei;

– determina le sanzioni irrogabili;

– estende l’obbligo di criminalizzazione delle persone giuridiche nel caso gli illeciti siano commessi da soggetti apicali, cioè derivino dall’omissione di controlli da parte dei vertici sui subordinati.

Un elemento di novità introdotto dalla direttiva Pif che avrà importanti impatti sull’ordinamento del nostro Paese è l’inclusione, tra i reati che danno seguito alla responsabilità amministrativa d’impresa, delle frodi i.v.a.

Nel decreto legislativo 231/2001 rientrano, quindi, anche i reati fiscali, che potranno ugualmente determinare la colpevolezza organizzativa degli enti.

Una clausola prevede, tuttavia, delle limitazioni alla portata della direttiva, applicabile “unicamente ai casi di reati gravi contro il sistema comune dell’i.v.a.”. Un reato è definito grave nel caso le condotte illecite abbiano un carattere transfrontaliero, siano cioè “connesse al territorio di due o più Stati membri dell’Unione”, e il pregiudizio per l’interesse finanziario UE sia di una certa rilevanza (“danno complessivo pari ad almeno 10.000.000,00 di Euro”).

Gli stati membri dovranno presto introdurre le misure necessarie ad assicurare che gli enti nel cui interesse siano commessi i delitti interessati dalla direttiva possano risponderne. Le sanzioni pecuniarie e interdizioni vanno dall’esclusione di un beneficio o di un aiuto pubblico al “commissariamento giudiziale o lo scioglimento dell’Ente” fino alla “chiusura temporanea o permanente degli stabilimenti che sono stati usati per commettere il reato”.

A partire dal 25 dicembre 2019 la legge di conversione del 19 dicembre 2019 n. 157 è entrata in vigore, introducendo la riforma dei reati tributari (di conversione del decreto fiscale), inserendo l’articolo 25 quinquiesdecies al decreto legislativo n. 231/01 e ampliando il novero dei reati presupposto.

Inizialmente l’articolo in questione doveva riguardare solo la fattispecie “Dichiarazione fraudolenta mediante l’utilizzo di fatture o altri documenti inesistenti ex art. 2 D. Lgs. 74/2000″ mentre con il nuovo provvedimento sono inclusi tutti i delitti fiscali, ossia:

  • la dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (anche inferiori 100.000,00 €);
  • la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici;
  • l’emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti;
  • l’occultamento o distribuzione di documenti contabilità;
  • la sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte.

L’intervento normativo si innesta nel contesto di una costante estensione della responsabilità amministrativa da reato dell’ente, determinata anche da un intervento europeo in tal senso (la direttiva UE 17/1371) e da un clima politico, in materia penale, estremamente rigorista nei confronti dei reati dei “grandi evasori”.

Se da un lato la scelta legislativa può apparire condivisibile nell’intento di aumentare la vigilanza in materia di compliance aziendale, dall’altro lascia aperti numerosi interrogativi, in particolare sotto il profilo interpretativo.

Il nuovo articolo 25 quinquiesdecies del decreto legislativo n. 231/2001 indica per quali reati tributari (previsti cioè nel novellato decreto legislativo 74/2000) commessi per interesse o vantaggio dell’ente possa determinarsi la responsabilità amministrativa.

Per la commissione di tali delitti è prevista sia l’applicazione delle sanzioni pecuniarie, per un importo compreso tra le 400 e le 500 quote (il valore di ogni quota varia da un minimo di € 258 ad un massimo di € 1.549), sia l’applicazione delle pericolosissime sanzioni interdittive che vanno a incidere sulla operatività aziendale (divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, esclusione da agevolazioni e finanziamenti, divieto di pubblicizzare beni e servizi ecc.). Se dalla realizzazione di tale reato è stato conseguito un profitto di rilevante entità, la sanzione pecuniaria sarà incrementata di un terzo.

Sono inoltre applicabili le sanzioni interdittive di cui all’art. 9, comma 2, decreto legislativo 231/2001, lettera c) (divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio), lettera d) (esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi) e lettera e) (divieto di pubblicizzare beni o servizi).

Allo stato dell’arte, quindi, i modelli che non tengano conto della riforma sono da considerarsi inidonei a prevenire i reati in discorso, almeno in parte qua.

Non si può escludere che i modelli organizzativi particolarmente rigorosi possano di fatto già diminuire di molto il rischio di commissione dei reati di cui all’elenco, ma ciò non toglie che l’assenza di una revisione della parte generale e il mancato inserimento di (almeno) un protocollo ad hoc non siano da considerarsi chiari indizi di scarsa consapevolezza dell’ente.

Anche un’indicazione all’o.d.v. è necessaria sul punto, sempre che non sia proprio l’organismo di vigilanza stesso a segnalare alla governance l’esigenza della revisione del modello organizzativo, adottando, nel frattempo, misure temporanee di mitigazione del rischio.

La miglior soluzione concreta alla data di entrata in vigore di tale normativa, quindi, appare proprio l’intervento preliminare dell’o.d.v., in attesa di misure (eventualmente) più complesse determinate dall’adeguamento del modello.

Diverso il discorso per i modelli semplificati e con o.d.v. monocratico (eventualmente interno all’organizzazione): in questo caso, data la natura semplificata della struttura di gestione e organizzativa, sarebbe consigliabile almeno un’attenta nuova analisi del rischio esterna.

L’introduzione dei reati tributari ha comportato, per le aziende già dotate di un modello, la necessità di intervenire aggiornandolo e, per quelle che ancora non hanno provveduto, di valutarne seriamente l’introduzione ai fini di una maggiore tutela del proprio patrimonio e degli stakeholder. L’associazione, avendo già da anni un proprio modello, è pertanto prontamente intervenuta per integrarlo, aggiornamento del proprio sistema di controllo interno finalizzato a impedire la commissione di tali reati.

A livello di novità legislative occorre poi proseguire questa esposizione con i riferimenti al decreto legislativo n. 75 del 14 luglio 2020, con il quale è stata recepita in via definitiva la direttiva (UE) 2017/1371 (la direttiva chiamata PIF) del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 luglio 2017, recante norme per la “lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale”.

L’attuazione di questa direttiva costituisce un ulteriore passo del percorso di armonizzazione delle misure in materia di tutela degli interessi finanziari dell’Unione Europea, iniziato con la ratifica ed esecuzione, mediante la L. n. 300/2000, della Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee del 26 luglio 1995.

La finalità dell’intervento normativo in esame è quella di conformare il nostro ordinamento ai criteri e ai principi contenuti nella direttiva 2017/1371, da una parte mediante l’introduzione e l’ampliamento di fattispecie di reato volte a tutelare gli interessi finanziari dell’Unione e dall’altra attraverso un ulteriore estensione dell’area della responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche derivante dalla commissione di reati tributari che arrechino grave pregiudizio agli interessi finanziari dell’U.E.

Il decreto introduce modifiche che concernono il codice penale, i delitti di contrabbando – innalzando le sanzioni penali per alcune fattispecie ritenute di particolare gravità – e di frode in agricoltura, i reati tributari di cui al d. lgs n. 74/2000 e la responsabilità degli enti derivante da reato ex d. lgs n. 231/2001.

Come si legge nella relazione illustrativa, tale intervento riformatore non è stato conseguito mediante l’introduzione di nuove fattispecie illecite, bensì operando modifiche sotto il profilo sanzionatorio, integrazioni e precisazioni di fattispecie già esistenti nel nostro ordinamento, già in gran parte allineato a quanto richiesto dalla Direttiva. Sotto il profilo delle modifiche al codice penale l’articolo 1 del decreto legislativo in esame, sulla base del criterio di delega contenuto nell’articolo 3, comma 1, lett. f) della Legge delega n. 117/2019, ha apportato modifiche agli artt. 316, 316-ter e 319-quater c.p. «integrando le ipotesi già negli stessi previste riguardo anche alla commissione di fatti che ledano gli interessi finanziari dell’Unione, con danno superiore a 100.000 euro», nonché agli artt. 322-bis e 640, comma 2, n. 1) c.p. di cui è stata estesa la portata applicativa.

In riferimento alle ipotesi delittuose di cui agli artt. 316, 316-ter e 319-quater c.p., conformemente alle indicazioni della direttiva, si prevede un innalzamento della pena edittale nel massimo fino a quattro anni di reclusione, alla duplice condizione che il fatto offenda gli interessi finanziari dell’Unione europea e che il danno o il profitto siano superiori a euro centomila.

Il legislatore perviene a tale risultato mediante l’aggiunta del periodo «La pena è della reclusione da sei mesi a quattro anni quando il fatto offende gli interessi finanziari dell’Unione europea e il danno o il profitto sono superiori a euro 100.000», rispettivamente, all’ultimo comma dell’art. 316 c.p., all’uopo introdotto dalla novella, e alla fine del primo comma dell’art. 316-ter c.p.

Analoghe modifiche vengono apportate alla fattispecie di cui all’art. 319-quater (induzione indebita a dare o promettere utilità) mediante l’introduzione, al secondo comma, dell’inciso «fino a quattro anni quando il fatto offende gli interessi finanziari dell’Unione europea e il danno o il profitto sono superiori a euro 100.000», che produce l’effetto di un aggravamento del trattamento sanzionatorio rispetto alla ipotesi base «della reclusione fino a tre anni».

In riferimento al novellato primo comma dell’art. 316-ter sorgono, tuttavia, questioni interpretative e applicative, in quanto la novella non pare prima facie adeguatamente coordinata con quanto già disposto dalla norma de qua «la pena è della reclusione da uno a quattro anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio con abuso della sua qualità o dei suoi poteri».

Ci si domanda, infatti, se, nell’ipotesi di commissione di un fatto delittuoso, lesivo degli interessi finanziari dell’Unione europea e il cui danno o il profitto siano superiori a euro 100.000 e commesso da parte di un soggetto che rivesta la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, debba trovare applicazione l’aggravante comportante la «reclusione da uno a quattro anni» ovvero quella neo introdotta avente un limite edittale inferiore «reclusione da sei mesi a quattro anni».

Il discrimen tra le due fattispecie è da individuare nella circostanza che se in relazione al massimo edittale entrambe le aggravanti sono da qualificarsi ad effetto comune (in quanto comportano un aumento contenuto nel limite di un terzo della pena base), la qualità soggettiva del reo rispetto alla neo-introdotta aggravante, assume carattere di circostanza ad effetto speciale in relazione al raddoppio del minimo edittale di pena.

Non si tratta tuttavia di una scelta tra circostanze aggravanti dettata dal principio del favor rei, dunque con applicazione di quella neo introdotta, ma dell’applicazione del principio del concorso di circostanze aggravanti, ex art. 63 c.p., a mente del quale “quando per una circostanza la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato o si tratta di circostanza ad effetto speciale, l’aumento o la diminuzione per le altre circostanze non opera sulla pena ordinaria del reato, ma sulla pena stabilita per la circostanza anzidetta. Sono circostanze ad effetto speciale quelle che importano un aumento o una diminuzione della pena superiore ad un terzo”. Detto articolo, peraltro, al comma quarto, prevede che “se concorrono più circostanze aggravanti tra quelle indicate nel secondo capoverso di questo articolo, si applica soltanto la pena stabilita per la circostanza più grave; ma il giudice può aumentarla”. Il riferimento è alle circostanze aggravanti a effetto speciale, sopra richiamate.

Secondo tale impostazione, dunque, si potrebbe applicare l’aggravante soggettiva, perché più grave in relazione al minimo edittale (un anno), e quindi eventualmente aumentare ulteriormente la pena.

Tale interpretazione pone dei dubbi in ordine alla natura della neo introdotta aggravante posto che come rilevato in dottrina essa sarebbe una circostanza c.d. indipendente ad effetto comune, in precedenza disciplinata dall’articolo 63 c.p. e oggi espunta dalla disposizione ma ancora richiamata nell’ambito del concorso eterogeneo di circostanze, di cui all’articolo 69 c.p.

Emerge dunque il difetto di coordinamento della nuova disciplina e viene messa in evidenza la lacuna che si è venuta a creare con la riforma attuata con legge n. 400 del 1984.

Un’ulteriore modifica concerne l’inserimento al comma primo dell’art. 322-bis c.p. del n. 5-quinquies, che consente l’estensione della punibilità, ove i fatti di corruzione siano tali da offendere gli interessi finanziari dell’Unione, «alle persone che esercitano funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio nell’ambito di Stati non appartenenti all’Unione europea».

Il medesimo scopo di estensione della portata applicativa della norma è stato raggiunto in riferimento all’ipotesi di cui all’art. 640, comma 2, n. 1) c.p., mediante l’equiparazione dell’Unione Europea allo Stato e agli altri enti pubblici quali persone offese del reato.

Infine l’articolo 7 del decreto opera un adeguamento normativo sul piano terminologico, precisando che, con riferimento alle norme penali che tutelano gli interessi finanziari dell’UE, «il riferimento alle parole Comunità europea dovrà intendersi come riferimento alle parole Unione europea» modifica questa recepita con integrazione delle rubriche di taluni dei reati richiamati.

Sotto il profilo delle modifiche ai reati tributari si rileva che l’articolo 2 del decreto in esame ha introdotto il nuovo comma 1-bis all’art. 6, che deroga alla regola generale della non punibilità a titolo di tentativo dei delitti di cui agli artt. 2, 3 e 4 nell’ipotesi in cui «siano compiuti anche nel territorio di altro Stato membro dell’Unione europea, al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto per un valore complessivo non inferiore a dieci milioni di euro».

Questo intervento si è reso necessario alla luce di quanto disposto dall’art. 5, par. 2, della Direttiva 2017/1371, il cui contenuto è stato riprodotto nell’art. 3, comma 1, lett c.) della Legge delega n. 117/2019 con cui il Parlamento ha imposto al Governo di «abrogare espressamente tutte le norme interne che  risultino incompatibili  con  quelle  della  direttiva  (UE)  2017/1371  e   in particolare quelle che stabiliscono che  i  delitti  che  ledono  gli interessi finanziari dell’Unione europea di cui agli articoli 3  e  4 della medesima direttiva non sono punibili a titolo di concorso o  di tentativo».

La novella presenta profili di interesse, il primo dei quali riguarda il riferimento agli «atti diretti a commettere i delitti», in cui non figura il secondo requisito dell’univocità degli atti richiesto dall’art. 56 c.p. per l’operatività dell’istituto del tentativo di delitto.

Ove l’espunzione del requisito dell’univocità degli atti non fosse il frutto di una dimenticanza bensì di una precisa scelta di matrice giustizialista del Legislatore, tale disposizione determinerebbe un sensibile arretramento della soglia di punibilità nonché una palese violazione del principio di offensività.

Come di recente chiarito dalla corte di cassazione, “ai fini della punibilità del tentativo, il giudizio sull’idoneità degli atti è un giudizio caratterizzato da una valutazione di cosiddetta ‘prognosi postuma’ e che si opera ex ante e in concreto, rapportandosi al momento dell’azione e non valutando l’idoneità degli atti stessi, in funzione del mancato verificarsi dell’evento, prospettiva che renderebbe fallace l’indagine e ‘inidoneo’ (nel senso voluto dall’art. 56 c.p.) ogni delitto tentato. La valutazione da compiere non è, pertanto, influenzata dal risultato naturale dell’azione, né si giudica ab exitu. Rileva, piuttosto, l’idoneità causale degli atti compiuti per il conseguimento dell’obiettivo delittuoso nonché l’univocità della loro destinazione, da apprezzarsi, come anticipato, con valutazione ex ante in rapporto alle circostanze di fatto e alle modalità della condotta” (cfr Cass., Sez. I, 8.11.2019, n. 4373).

Il secondo elemento di interesse è costituito dalla transnazionalità nella commissione dell’illecito penale tributario. In riferimento all’inciso «compiuti anche nel territorio di altro Stato membro dell’Unione europea», sono sorti dubbi interpretativi in merito alla possibilità di perseguire in Italia solo i reati tributari la cui condotta sia stata commessa in parte sul territorio nazionale e in parte su quello di altro Stato europeo, ovvero se sia consentita la punibilità degli illeciti la cui condotta sia stata posta in essere interamente in altro Stato europeo.

Nonostante la suggestività della seconda tesi, si deve propendere per il primo orientamento ermeneutico, che risulta coerente sia con quanto disposto dall’art. 6, comma 1, c.p., per cui il «reato si considera commesso nel territorio dello Stato, quando l’azione o l’omissione, che lo costituisce, è ivi avvenuta in tutto o in parte», sia con quanto affermato nella Relazione illustrativa del d. lgs n. 75/2020 «Quanto alla giurisdizione, ribadendo le osservazioni formulate nella redazione della legge delega – che non a caso ha lasciato, alla lettera i) dell’articolo 3, al legislatore delegato la scelta sull’opportunità dell’intervento – il sistema attualmente vigente appare già conforme a quanto richiesto dalla direttiva: l’articolo 6 del codice penale, infatti, sancisce la giurisdizione penale italiana in ogni caso in cui anche una sola parte dell’azione o dell’omissione sia stata commessa sul territorio o i vi si sia realizzato l’evento del reato; mentre le integrazioni al disposto dell’articolo 9, terzo comma, disposte dalla legge n. 300 del 2000 (con la previsione della speciale regola di giurisdizione nel caso di delitto commesso all’estero dal cittadino in danno delle Comunità europee) risultano già rispettose delle disposizioni dell’articolo 11 della direttiva».

Riguardo alla modifica dei reati di contrabbando e di frode in agricoltura il decreto in esame interviene altresì, a norma dell’art. 3, sulla disciplina penale dei reati di contrabbando. Modificando l’art. 295 del D.P.R. n. 43/1973, il legislatore ha inasprito il trattamento sanzionatorio per i delitti previsti dal decreto, prevedendo la pena della reclusione da tre a cinque anni anche nei casi in cui l’ammontare dei diritti di confine dovuti sia superiore a euro centomila.

L’intervento del legislatore interessa anche il d.lgs. n. 8/2016. L’art. 1 del citato decreto dispone la depenalizzazione degli illeciti puntiti con la sola pena pecuniaria, prevedendo, al contempo, alcuni casi di esclusione ai quali si aggiungono, in seguito alle modifiche intervenute per effetto dell’art. 4 del d.lgs. n. 75/2020, i «reati di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, quando l’ammontare dei diritti di confine è superiore a euro diecimila».

Infine anche in riferimento ai reati di frode nel settore agricolo di cui alla L. n. 898/1986, il Legislatore ha elevato il massimo edittale della pena della reclusione da tre a quattro anni, qualora il danno o il profitto siano superiori a euro centomila.

Riguardo all’ampliamento dell’area della responsabilità degli enti ex d.lgs. n. 231/2001, il decreto in esame apporta, a norma dell’art. 5, modificazioni al d.lgs. n. 231/2001 volte ad ampliare il catalogo dei reati presupposto della responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche, secondo il principio di cui all’art. 3, comma 1, lett. e) della Legge delega n. 117/2019.

In primo luogo sono state introdotte nuove fattispecie di reato nell’elenco di cui all’art. 24 del d. lgs n. 231/2001 (ora rubricato, per effetto della novella, “Indebita percezione di erogazioni, truffa in danno dello Stato, di un ente pubblico o dell’Unione europea o per il conseguimento di erogazioni pubbliche, frode informatica in danno dello Stato o di un ente pubblico e frode nelle pubbliche forniture”), che ora comprende il delitto di frode nelle pubbliche forniture di cui all’art. 356 c.p. ed il reato di frode in agricoltura di cui all’art. 2 della L. n. 898/1986. Inoltre, con riferimento ai reati di cui agli artt. 316-bis, 316-ter, 640, comma 2, n. 1), 640-bis e 640-ter c.p., il Legislatore equipara l’Unione Europea allo Stato e agli altri enti pubblici quali persone offese del reato.

Il decreto interviene altresì sull’art. 25 (la rubrica è stata così sostituita “Peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione e abuso d’ufficio”) del d. lgs n. 231/2001, ampliando il panorama dei delitti contro la P.A., che ora comprende i reati di peculato di cui agli artt. 314 e 316 c.p. e il delitto di abuso di ufficio di cui all’art. 323 c.p.

Rispetto a tali fattispecie di reato, l’estensione della responsabilità alle persone giuridiche risulta tuttavia circoscritta, in accoglimento delle osservazioni all’uopo formulate dalla II Commissione permanente della Camera dei deputati nella seduta del 20 maggio 2020, ai soli casi in cui «il fatto offende gli interessi finanziari dell’Unione europea».

Le modificazioni più rilevanti riguardano, tuttavia, l’art. 25-quinquiesdecies, disposizione recentemente introdotta nel decreto 231 per effetto del D.L. n. 124/2019, al quale viene aggiunto il nuovo comma 1-bis, che prevede, in relazione alla commissione dei reati tributari di cui agli artt. 4 (dichiarazione infedele), 5 (omessa dichiarazione) e 10-quater (indebita compensazione) d.lgs. n. 74/2000 e a condizione che gli stessi  siano «commessi nell’ambito di sistemi fraudolenti transfrontalieri e al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto per un importo complessivo non inferiore a dieci milioni di euro», l’irrogazione della sanzione pecuniaria fino a trecento quote per il delitto di dichiarazione infedele e fino a quattrocento quote per i delitti di omessa dichiarazione e indebita compensazione.

Il catalogo dei reati presupposto si arricchisce altresì, per effetto dell’introduzione dell’art. 25-sexiesdecies nel d. lgs n. 231/2001, dei delitti di contrabbando previsti e puniti dal D.P.R. n. 43/1973.

Per la commissione del delitto de quo è prevista l’irrogazione della sanzione pecuniaria fino a duecento quote, aumentata fino a quattrocento quote ove l’ammontare dei diritti di confine dovuti sia superiore a euro centomila.

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